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Come si cambia per non morire. Non è uno sport per gentiluomini, parte III

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Di Pasquale Amoruso

Dopo Saint Claude e la sua creazione, dopo Dunhill e la sua trasformazione, con oggi concludiamo il nostro discorso su come la pipa si sia trasformata nel tempo da strumento per poveri in oggetto di culto.

Come sempre accade, nulla come una guerra è in grado di dare impulso al progresso. Subito dopo il secondo conflitto mondiale, con le città da ricostruire e lo spopolamento delle campagne, la vita divenne più frenetica. Non c’era più molto tempo per la pipa. In più, gli americani avevano portato in Europa le sigarette industriali, già pronte, non te le dovevi rollare tu, drammaticamente economiche. Chiariamo una cosa, le sigarette industriali in Europa c’erano già, anche prima della seconda guerra mondiale. Simenon, nel suo romanzo del 1931 “La testa di un uomo”, fa acquistare al giovane Radek un pacchetto di sigarette Orientali, per mostrare al lettore che il personaggio era improvvisamente diventato ricco in qualche modo. Questo perché prima della seconda guerra mondiale le sigarette industriali erano care (visto che erano fatte non solo di Virginia) e poco adoperate, anche perché erano fumate come sigari e pipa: non si aspiravano e duravano pure poco. Quindi, ancora una volta, erano destinate ai ricchi.
Agli inizi del ‘900, il consumo medio di sigarette, negli U.S.A., paese col maggior consumo dell’epoca, era di circa 60 sigarette all’anno per maschio adulto.

Gli americani, però, state a sentire che furbata, ne addolcirono la formula, eliminarono i tabacchi d’importazione come Latakia e Orientali, con cui erano fatte in Turchia e Europa, e presero a farle solo col Virginia, abbatterono i costi, le resero più economiche. Soprattutto, però, e questa è la vera furbata, le resero inalabili, diminuirono il contenuto di nicotina ma senza eliminarlo del tutto. Meno nicotina che brucia la gola e i polmoni vuol dire boccate più voluminose, quindi fumate più brevi e di conseguenza più sigarette al giorno. Più sigarette al giorno vuol dire più nicotina. Di fatto le resero più assuefacenti della pipa e del sigaro e in un mondo sempre più veloce, sempre più frenetico, divennero l’alternativa ideale alla pipa e anche al sigaro.

La richiesta di pipe calò, la pipa subì una importante battuta d’arresto e io dico: per fortuna, perché altrimenti non avrebbe avuto modo di evolvere come ha fatto.

In un periodo di relativa stasi, le aziende ebbero modo di riorganizzarsi, meno pezzi, ma di maggior pregio e in più, intorno agli anni ’50 e ’60 del ‘900, dopo quasi cento anni dalla sua nascita, la pipa ebbe il modo di ricostituirsi quel passaggio di sperimentazione artigianale che tanto le era mancato, all’inizio della sua storia. Il calo di produzione da parte delle aziende allentò la morsa attorno alle piccole realtà artigiane che, pur essendo sempre esistite, fino ad allora erano state messe in ombra dai grandi numeri dell’industria. Il respiro maggiore permise a queste realtà di assumere un ruolo di maggior visibilità e importanza nella produzione piparia.

Laddove la scuola varesina era tecnologia e innovazione, sorsero scuole differenti, che sebbene non trascuravano la funzionalità, riservavano maggiore spazio all’estetica. Si scoprì che la radica era bella. Certo era il miglior materiale per costruire una pipa, ma fiamme e occhi di pernice potevano essere visti come elementi estetici, non solo come elementi strutturali per la dispersione del calore. In questa convinzione sorse la scuola danese, dove il pipemaker partiva dal disegno della radica per farsi suggerire lo shape, elaborando forme canoniche nuove, e sviluppando molti shape freehand anche molto complessi e virtualmente impossibili da realizzare in fabbrica, che esprimevano il meglio di sé nelle botteghe artigiane.

Va fatta un po’ di chiarezza sul termine di shape freehand, e distinguerlo dal concetto di freeshape. Con freeshape si intende uno shape canonico e ben determinato che, per la sua complessità, difficilmente può essere eseguito a macchina, ma solo a mano libera. Un esempio di questo è la blowfish, una forma definita e con di canoni precisi che per la loro peculiarità non si possono realizzare a macchina. Mentre solitamente, e sbagliando, definiamo freehand ciò che è in realtà è una pipa freeshape, cioè con una forma libera non canonica, frutto dell’estro dell’artigiano.

Non divaghiamo. In Italia, parimenti, si affermò la scuola pesarese che arricchiva di dettagli estetici la pipa, rendendola meno riproducibile e meno economica per una fabbrica (coi mezzi dell’epoca). Erano gli anni del cosiddetto Miracolo Economico Italiano, dopo la ricostruzione post bellica, e in tutta Europa nacquero botteghe artigiane che piano piano si imposero all’attenzione degli acquirenti che ora avevano anche qualche soldino in più in tasca. Lavorando su numeri minori e tempi più lenti, queste botteghe riuscivano a fornire intanto pezzi unici, ma soprattutto shape più ricercati e maggior attenzione alla clientela e a spingere maggiormente su innovazioni artistiche e stilistiche, non solo tecnologiche. In più, come abbiamo già visto, il boom economico aveva portato qualche soldo in più e con la nascita del concetto di design, gli acquirenti ricercavano maggiormente pezzi che fossero più pregiati, particolari. Cominciava a nascere il concetto del collezionismo.

L’artigianato pose l’asticella della produzione piparia molto più in alto e questo diede nuovo impulso anche alle industrie, che già stavano riorganizzandosi e rinascendo in nuove realtà più ricercate, e le spinse a dover competere con quel mercato artigianale che cento anni prima non rappresentava un concorrente. La pipa varesina/comasca ebbe un’evoluzione, nacquero nuove aziende, ora sì di tradizione artigiana, capaci di concorrere con gli artigiani nella realizzazione di prodotti di pregio e di offrire nuove soluzioni di design come richiedeva il nuovo mercato.

La pipa era cambiata. Si trasformò da strumento di uso comune a oggetto di stile: svestita la tuta blu, ora indossava un bel frac, cominciava a diventare un vezzo, un virtuosismo, un’icona.

Se da un lato, la battuta d’arresto della cultura della pipa ha dato un nuovo slancio a quest’arte e alla produzione, il rovescio della medaglia è un inevitabile arroccamento della cultura della pipa su posizioni più elitarie. Banalmente le nuove pipe costavano di più delle loro antenate di inizio secolo, quindi erano per meno persone e con disponibilità diverse. La sensibilità era cambiata, le sigarette erano più facili, veloci ed economiche, la pipa non era più un modo di fumare comune, ma una cultura, un rito, qualcosa che richiedeva impegno, conoscenza e tempo libero. ora, per fumare la pipa dovevi essere uno che non aveva niente da fare… come un nobile, ecco.

Quindi, anche se è nata in un contesto popolare, ora che si è ingentilita, diventando un prodotto di nicchia, si può considerare un occupazione da gentleman? Purtroppo e per fortuna, no. Ma non per colpa sua, quanto per colpa dei fumatori. Ma questo, se permettete è un parere totalmente personale. Fine.